Il lavoro che cambia, il lavoro che manca

Iniziamo oggi la pubblicazione di alcune riflessioni sul tema del lavoro da alcuni anni al centro di ogni dibattito politico, sociale, ecclesiale.

L’Italia, come recitano alcuni articoli della nostra Costituzione, é una repubblica fondata sul lavoro e, al tempo stesso, un Paese più volte riformato su questa materia con lo scopo di assicurare maggiore e migliore occupazione.

Il paradosso a cui assistiamo, grandemente alimentato dalla globalizzazione, é che l'occupazione stabile è quasi preclusa a molti giovani costretti a vivere nella precarietà e nel l'insicurezza con inevitabili ricadute sulla loro capacità progettuale e sulla loro stessa identità, sulla vita di coppia e sulla famiglia.

Come recita a titolo di esempio la “Gaudium et Spes”: 

“Poiché l’attività economica è per lo più realizzata in gruppi produttivi in cui si uniscono molti uomini, è ingiusto e inumano organizzarla con strutture e ordinamenti che siano a danno di chiunque vi operi. […] Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita; innanzitutto della sua vita domestica […]. Ai lavoratori va assicurata inoltre la possibilità di sviluppare le loro qualità e di esprimere la loro personalità nell’esercizio stesso del lavoro. Pur applicando a tale attività di lavoro, con doverosa responsabilità, tempo ed energie, tutti i lavoratori debbono però godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita famigliare, culturale, sociale e religiosa”.

Posta dunque la persona al centro del lavoro, è necessario analizzare come le nuove forme di lavoro atipico influenzino e mettano in questione gli altri ambiti di vita dell’uomo. 

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L’uomo e il nuovo mercato del lavoro 

“L’uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all’incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli. E con la parola «lavoro» viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni, delle quali l’uomo è capace ed alle quali è predisposto dalla stessa sua natura, in forza della sua umanità. Fatto a immagine e somiglianza di Dio stesso nell’universo visibile, e in esso costituito perché dominasse la terra, l’uomo è perciò sin dall’inizio chiamato al lavoro. Il lavoro è una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dal resto delle creature, la cui attività, connessa col mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro: solo l’uomo ne è capace e solo l’uomo lo compie, riempiendo al tempo stesso con il lavoro la sua esistenza sulla terra. Così il lavoro porta su di sé un particolare segno dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone; e questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso, la stessa sua natura”.

Giovanni Paolo II iniziava con questa efficace sintesi la sua lettera enciclica sul lavoro nel 1981. Stavano scorrendo gli ultimi anni del secolo breve. Il 1989, di lì a poco tempo, avrebbe traghettato il mondo verso trasformazioni epocali. Anche il lavoro è cambiato. Se le affermazioni del papa polacco descrivono il nucleo significativo ed immutabile del lavoro, le modalità e le condizioni dell’esperienza lavorativa hanno subito pesanti stravolgimenti. Un ipotetico salariato, che si pensava come un metalmeccanico, un impiegato o un operaio in una azienda tessile, senza aver mai saputo di essere stato un lavoratore tipico, si è ritrovato ad essere un atipico e un precario oppure un collaboratore coordinato e continuativo o un assunto con contratto di lavoro in somministrazione (ex interinale).

Il nostro lavoratore ipotetico è al centro di processi di trasformazione complessi, di un mercato economico con i suoi ritmi e i suoi criteri, che nell’era della globalizzazione, impongono la flessibilità2. È un mercato convulso, investito dalla rivoluzione dell’informatica e dal nuovo paradigma del consumo, dove “le imprese devono esser capaci di continue improvvisazioni, di saper suscitare e sfruttare a fondo infatuazioni effimere mode imprevedibili e volatili. […] Non si tratta semplicemente di rispondere in maniera quasi istantanea alla domanda sempre più volubile di clienti e committenti: si tratta di accentuare, anticipare, innovare; creare l’inconsistenza, la futilità, il carattere effimero dei desideri”. Se il lavoro è un fattore di una produzione tanto volubile, esso dovrebbe essere flessibile, essere presente solo quando serve, modificarsi continuamente, essere messo da parte senza troppi vincoli quando è il caso. Merce da vendere e comprare, spostare, prestare e affittare.

Fortunatamente il processo di mercificazione del lavoro che accompagna l’industrializzazione, nella sua complessità, ha degli antagonisti e dei limiti: la società e le leggi dello stato. Infatti “i fenomeni che interessano le società industriali possono essere visti come il risultato dell’intrecciarsi di due movimenti contrapposti: quello del mercato, che tende ad espandersi e quello della società che, per difendersi, tende a limitare tale espansione”. Il dibattito è in corso e la stessa varietà della terminologia utilizzata ne testimonia lo stato magmatico ed incandescente. Si va dal concetto positivo di flessibilità, alla sottolineatura delle conseguenze di frammentazione e svantaggio del termine precarietà, agli aggettivi più neutri di «lavoro atipico» o «lavoro instabile».

Il nostro ipotetico uomo del moderno mercato del lavoro fa fatica a capire tutte le complesse dinamiche del livello macroeconomico e tutti i processi di globalizzazione della finanza mondiale. Però, egli sa che gran parte della vita la trascorre lavorando e, d’istinto, comprende che non si può leggere la vita delle persone solo con gli strumenti del ragioniere o del commercialista, o con quelli più raffinati dell’economista.

Come sviluppare quest’intuizione? Quali gli strumenti per indagare il lavoro del nuovo secolo? Quale può essere lo sguardo della Chiesa e della teologia morale sociale nei confronti della nuova realtà del lavoro? Le politiche del lavoro sono materia di discernimento su cui la dottrina sociale della Chiesa e la teologia possono gettare una luce, oppure sono problemi tecnici ed opinabili?

Provocati da queste questioni, si fa sentire l’esigenza di analizzare il fenomeno del lavoro atipico con gli occhi del cristiano.

*Seguirà pubblicazione

Don Andrea Del Giorgio