Gestazione per altri

Riceviamo e pubblichiamo questo intervento del deputato PD Mauro Del Barba. Un tema di cui vale la pena parlare.

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“Si tratta indubbiamente di un tema sensibile, che coinvolgono la coscienza personale e una visione di società, addirittura una differente antropologia. E’ giusto quindi che venga dibattuto e sarebbe auspicabile che il dibattito avvenisse andando in profondità nella questione, cercando reciprocamente di comprendere i valori in gioco, evitando di utilizzare argomenti utili solo per la rispettiva propaganda, ma non all’altezza della delicatezza di questo dibattito.

Precondizioni al dibattito e posizioni politiche.

I sondaggi sull’argomento mostrano una sostanziale divisione in due del paese tra favorevoli e contrari, con una prevalenza per i contrari, ma una quota molto significativa di favorevoli. Anche nei singoli partiti si ritrova questo posizionamento, accentuando la posizione dei contrari man mano che ci si sposta da sinistra a destra. E’ sicuramente più facile per i partiti conservatori ritrovarsi in posizioni di contrarietà, ma anche in quei partiti sia i rappresentanti politici che gli elettori, sebbene in proporzioni minori, nutrono dubbi e posizioni di distinguo. E’ più acceso il dibattito a favore all’interno di partiti liberali, più inclini alle libertà dei comportamenti individuali, o progressisti, più aperti all’idea di cambiamento e avanzamento della società anche nei diritti civili. Proprio queste naturali differenti sensibilità inducono nel dibattito elementi impuri, di battaglia politica comprensibile, ma non utile e non all’altezza della situazione perché non in grado di avvicinare le posizioni né di suscitare quell’apertura capace di infondere al dibattito lo spessore che solo può consentire di giungere a dei progressi. E’ il caso, ad esempio, delle accuse di conservatorismo o peggio “bigottismo” che, nel Partito Democratico, vengono non di rado mosse verso chi nello stesso partito mostra posizioni contrarie. Se è vero che le formazioni conservatrici sono espressamente contrarie, è altresì chiaro che questo non significa di per sé che la contrarietà sia una posizione conservatrice. Chi in buona fede abbraccia questa tesi, spesso con furore ideologico, rischia di non cogliere minimamente la distinzione tra il cambiamento dei costumi e le questioni di fondo che segnano profondamente una civiltà e tracciano i confini tra le epoche o costituiscono argini ad epoche pericolose che più volte hanno tentato di affacciarsi alla storia. Personalmente sono molto favorevole al progresso che anche il Partito Democratico ha impresso alla società italiana, ad esempio con la legge sulle unioni civili omosessuali, gli interventi sulle adozioni internazionali, la semplificazione del diritto di famiglia. Tuttavia non per questo né per guadagnare facilmente la patente di progressista, democratico, liberale, aderisco troppo facilmente a posizioni che, dal mio punto di vista, recano in sé, al di là della fascinosa aurea di modernità, elementi antichi e tentazioni prevaricatrici. Trattandosi di un tema etico e divisivo, la politica che si richiama a principi democratici tende a proteggerlo elencandolo tra i temi assoggettati alla libertà di coscienza del parlamentare. Un approccio pragmatico, più tipico di altri paesi, ma non del tutto estraneo alla tradizione italiana in momenti particolari della propria storia, suggerirebbe al politico di non cimentarsi troppo con queste vicende e lasciarle al dibattito del paese, limitandosi a misurare il grado di consenso e comportandosi dal punto di vista legislativo di conseguenza.
Sebbene questo atteggiamento abbia in sé molti aspetti virtuosi, come quello di lasciar maturare le questioni e affidarle al paese nella sua interezza, è chiaro che di fronte ad offensive di un certo segno, chi abbia una convinzione contraria si adopererà per costituire almeno una resistenza di segno opposto. 

Libera scelta e ruolo dello stato.

Nel dibattito che richiamavo in apertura, con amici e conoscenti, inevitabilmente accade che qualcuno tra i favorevoli, dopo aver ascoltato e apprezzato le convinzioni dei contrari, intervenga a sostenere: “va bene, capisco che tu abbia questo giudizio personale, ma perché non lasci liberi gli altri di decidere cosa sia bene per loro e come si vogliano regolare per la propria paternità?” La forza dell’argomentazione sulla libera scelta è nota e spesso coglie nel segno: alcuni dei contrari si dichiarano immediatamente favorevoli alla libera scelta altrui, a mio modo di vedere, da osservatore, spesso perché l’accusa di essere liberticidi li pone sulla difensiva, a volte per un reale convincimento in merito a questo principio. Mi preme ricordare però che il principio della libera scelta richiede un supplemento di indagine. A volte è talmente celebrato che rischia di essere preso come principio universale e spesso capita di sentir dire indistintamente: se tu sei contrario ad A non puoi e non devi imporre agli altri il divieto di fare A, dove per A ci sta qualsiasi cosa riguardi aspetti apparentemente riferibili alla sfera personale (bere, fumare, fumare in locali pubblici, drogarsi, vivere le scelte affettive, curarsi, togliersi la vita, mettere il casco, allacciare la cintura, avere più coniugi, professare una fede, negare l’olocausto, gettarsi da un ponte con un elastico, vaccinare i figli, educare i figli, donare un organo in vita, destinare a qualcuno i propri organi dopo la morte,etc.  Ho volutamente elencato situazioni disparate e su piani ben differenti tra loro perché si possa cogliere la non universalità della libera scelta e anche la provvisorietà di alcune consuetudini). Dovrebbe quindi essere chiaro che l’obiezione “libertaria” non ha in sé alcun valore, se non la potenza seduttiva del linguaggio e la sua applicabilità e desiderabilità in molti ambiti. Il tema è e rimane quello di portare delle argomentazioni relativamente a ciascun singolo “A”. E’ il solito dilemma libertà-responsabilità, per cui ogni presunta libertà deve fare i conti con le conseguenze su di sé e sugli altri. Quest’ultimo spunto introduce un secondo tema dal profilo controverso: fino a che punto lo stato, anche attraverso le leggi, deve intervenire sul tema delle libertà individuali e la garanzia del rispetto dei diritti altrui, dei principi generali di convivenza, della sicurezza, della salute? Anche su questo tema si rischia spesso di essere liquidatori: lo stato non deve interferire nelle scelte personali che riguardano temi sensibili come la vita, le relazioni affettive, etc.  Anche questo principio è condivisibile, ma se ci si ferma a riflettere la sua applicazione è tutt’altro che scontata. 

I figli e la loro tutela.

In tutto questo dibattito non entro nel merito del soggetto veramente debole e da tutelare in questa situazione: il figlio. Si potrebbero porre tante domande serie sulla condizione del figlio, su come dovrebbe essere accompagnata, sostenuta e valorizzata la vicenda che lo ha portato al mondo. Tutte cose importanti, ma che non si possono definire per legge. Mi limito a ricordare che anche lui, oggetto del desiderio e motivo della contesa, avrebbe qualcosa da dire in tutto ciò e ogni tanto, nel nostro dibattito, dovremmo provare a darvi voce. Una cosa però vorrei affermarla: non confondiamo i diritti e la tutela dei diritti dei bambini, che hanno diritto ad avere dei genitori, con questo dibattito. Nè in alcun modo estendiamo le posizioni sulla legittimità di una pratica con improprie e abominevoli ricadute sui bambini che da questa pratica si trovino ad essere nati: un bambino è un bambino, comunque sia nato, ovunque sia nato, qualunque sia la situazione in cui si trova a vivere. E da quel momento non esiste argomentazione che possa superare la necessità che quel bambino ha di vedersi riconosciuti diritti fondamentali. Nè facciamo accostamenti con il tema delle adozioni, proprio per lo stesso motivo. L’adozione si pone il problema di come garantire ad un bambino, che come tale è nato, dei genitori che lo amino o comunque la situazione più appropriata per la sua crescita. Qua stiamo parlando d’altro. Il tema è già sufficientemente complesso e intrecciato con i sentimenti e la vita delle persone senza dover ricorrere ad altre situazioni di vita che meritano il rispetto di non essere scomodate in modo strumentale. 

Le domande che vorrei.

Mi piacerebbe che il dibattito cominciasse da due semplici domande:
1) Esiste un diritto ad avere un figlio?
2) E’ lecito disporre del corpo altrui ed entro quali limiti?
Ciascuna delle due domande ha naturalmente molteplici aspetti che meglio la specificano.
Se la prima, ad esempio, a mio avviso ha una risposta immediata: non esiste il diritto ad avere un figlio, come invece esiste il diritto alla cura, il diritto al lavoro, il diritto alla adesione ad una confessione religiosa, pone quanto meno delle valutazioni in subordine. Ci sono delle condizioni per cui lo Stato dovrebbe intervenire, facilitando o vietando la volontà di un soggetto (una coppia?) di avere un figlio? E’ chiaro che tale domanda si debba riferire soprattutto se non esclusivamente a tutte le pratiche mediche ed alla GPA perché, fortunatamente, nessuno si sognerebbe di immaginare dei divieti che avessero effetto nell’intimità preziosa delle unioni affettive tra due persone (anche se i servizi dei consultori familiari, ad esempio, o i servizi resi da medici o professionisti di varia natura hanno a che vedere anche con questo aspetto). La prima domanda, per concludere, mi pare abbia un senso semplice: orientare il dibattito nell’ampio cono di luce in cui tale diritto non esiste, ma per contro esiste l’interesse che la società cooperi con la volontà (di una coppia?) di generare un figlio. I confini, e dunque i limiti, di questo interesse si sono manifestati nel dibattito pubblico con una certa forza in occasione della legge 40 e successivo referendum abrogativo in particolare sul tema della fecondazione eterologa o la conseguenza tecnica della fecondazione con la produzione di un numero elevato di embrioni sovrannumerari e il problema della loro destinazione, cominciando in tal modo a profilare la necessità della seconda domanda. In quell’occasione la declinazione diveniva: è desiderabile e opportuno impiantare in una donna un ovulo fecondato proveniente da un’altra donna? A quali condizioni ciò deve avvenire? Deve essere un accordo tra le due donne, serve l’anonimato, esiste il diritto del nascituro a conoscere il proprio corredo genetico? E’ lecito produrre embrioni e congelarli? Che fine faranno? Sono accettabili le conseguenze indotte dalla tecnica sul corpo della donna? In quell’occasione emerse chiaramente, non so quanto nell’opinione pubblica per la verità, come il desiderio del tutto legittimo, bello, positivo di avere un figlio (che abbiamo detto, non è un diritto) comportava, con le tecniche note e utilizzate, la necessità di congelare e forse sacrificare un certo numero di embrioni oltre che la necessità di sottoporre il corpo della donna a pratiche dolorose e fortemente invasive. Inoltre si poneva una distinzione tra il caso in cui l’ovocita fecondato fosse della donna in cui sarebbe stato impiantato oppure di una donatrice. Non intendo certo riaprire qua la complessità (e la durezza, spesso del tutto inappropriata) di quel dibattito, quanto spiegare il progressivo avvicinamento delle due domande che ho posto a fondamento di questo paragrafo e il progressivo aumentare del loro legame e della loro portata con il progredire della tecnica e l’affacciarsi di nuove frontiere. E’ così scontato che un desiderio primario come quello della maternità possa comportare l’utilizzo di un ovocita di una terza donna e/o il sacrificio di embrioni? E’ del tutto normale che lo stesso tipo di quesiti, che poggiano sulle due domande principali, si ripropongano, con una evidenza notevolmente maggiore, nel caso della GPA. In tale situazione la sofisticazione corporea raggiunge dimensioni che richiedono ulteriori quesiti. La gravidanza viene portata avanti da una terza persona, vicina o lontana nel mondo sostanzialmente per motivi legali e/o culturali, e il bambino viene separato alla nascita, in un momento ritenuto opportuno, per affidarlo al/ai genitore/i. In genere questo “accesso” al corpo altrui per almeno 9 mesi viene economicamente ristorato, per le comprensibili difficoltà economiche che questo impegno comporta. L’accesso e la fruibilità del corpo altrui supera quindi enormemente l’utilizzo di materiale biologico e il problema di embrioni sovrannumerari, approdando a un utilizzo evidente e riconoscibile, invasivo, che a ragione di ciò evoca anche la denominazione di “utero in affitto” (parlerò più avanti della terminologia che suggerirei di utilizzare in questo caso). Ora, su questo punto il dibattito naturalmente si infiamma, andando a sottolineare chi la disumanità di questa situazione, nei confronti del nascituro e della donna a cui viene sottratto, chi l’amorevolezza e la dimensione donativa che sottende questo gesto. Nel mondo vi sono numerosi esempi dell’uno e dell’altro caso che possono essere presi a sostegno delle due opposte visioni. Si obietterà che occorre andare oltre la situazione di fatto che si registra oggi, che è determinata dalle differenti legislazioni nazionali e che solo per questo vi sono autentiche situazioni in cui non appare inappropriato parlare di schiavitù e sfruttamento del corpo altrui. Ma anche volendo andare oltre questi, numerosi, casi che nel mondo andrebbero denunciati senza se e senza ma, rimane il tema di se e come, nel migliore dei mondi possibili, sia auspicabile immaginare che il corpo umano venga utilizzato da altri per sovvenire ai propri desideri, anche quando legittimi e profondi come quello della genitorialità. Il fatto che ciò avvenga dietro corrispettivo economico a mio avviso aggrava l’urgenza della domanda, in quanto saremmo di fronte a una mercificazione del corpo, con un chiaro rischio di lesione della dignità della persona, rischio che supera di gran lunga l’obiezione per cui tale pratica sarebbe da regolare in quanto discriminante tra ricchi e poveri su un tema che non dovrebbe presentare distinzioni. Sorgono anche domande più tecniche: cosa accade se una delle parti contraenti cambia idea durante la gravidanza? E se il feto risulta essere malato o con deformazioni? E se la gravidanza sarà a rischio? Questo per limitarsi alle prime domande più interessate alla vita ed alla salute del nascituro, ma non sarà difficile immaginare quale enorme quantità di dubbi, non solo di natura etica, siano connessi a questa pratica. Ci si potrebbe anche domandare, e non sarebbe una domanda di poco conto, chi avrebbe diritto di ricorrere a questa possibilità: una coppia di benestanti novantenni vi potrebbe accedere? Un singolo? Due fratelli? Una coppia eccentrica che volesse attivare contemporaneamente un certo numero di GPA? Naturalmente queste sono domande “facili” perché presuppongono una soluzione convenzionale per ciascuna di esse. Il punto, che ribadisco in chiusura, è che si aprono le frontiere per l’oggettivazione e conseguentemente la mercificazione del corpo, che ancora una volta si tratta del corpo della  donna, il che non è certo una novità positiva nella storia della nostra civiltà, che per raggiungere uno scopo che abbiamo detto non essere un diritto si piegano questioni etiche che stanno a fondamento della nostra società, che con una disinvoltura preoccupante si vuole accedere all’epoca della disponibilità economica dei corpi altrui e del sacrificio scontato dei “prodotti” più deboli, inaugurando un darwinismo economico che getta le basi di una nuova epoca che non mi pare affatto promettente.  Queste sono le domande (alle quali ho abbozzato alcune mie risposte e la mia visione di fondo, ma a cui credo serva il contributo di tutti, a partire dai filosofi) che vorrei fossero al centro del nostro dibattito, che mostrassero un partito unito e forte nel cercare se esista un percorso, magari come quello che alcuni desiderano, che non costituisca una pericolosa deriva di mutazione etica e antropologica.  Vorrei che si capisse che vederla in questo modo non è né reazionario, né liberticida, né crudele, né autoritario, né irrispettoso di chi ritiene che la GPA sia un avanzamento di civiltà. Per questo motivo vorrei che cadessero questi pregiudizi e si desse vita ad un confronto serio. Allo scopo anche il linguaggio dovrebbe essere “neutro” e “rispettoso”. Convengo che l’espressione “utero in affitto” suoni offensiva nei confronti di chi la sostenga, la desideri o l’abbia praticata. Per questo motivo credo sia più utile parlare di “Gestazione per altri” o “maternità surrogata” ben sapendo che può apparire offensivo anche un uso ingannevole del linguaggio e che è offensivo pretendere violentemente che si imponga l’uso di “Gestazione per altri” essendo in maniera evidente questa locuzione prodromica alla tesi che la GPA sia da accettare e sostenere, in quanto definizione che allude alla generosità e non allo sfruttamento.  La via del dialogo è la via maestra, anche per temi così divisivi e scottanti. Ma tentare di imporre una visione attraverso forzature linguistiche, accostamenti inadeguati, figure retoriche ammalianti, ma del tutto vuote, come quelle che ho tentato di indicare o di dettare l’agenda a senso unico sono forzature che mi troveranno, anche quando dovesse apparire poco gentile, atteggiamento che tendo a preferire, vigilante e inflessibile. 

Redazione