E’ il momento della solidarietà valligiana

 

 

Siamo a un altro dei non pochi "giorni dopo” della nostra storia di collettività montanara, che non fu certo risparmiata durante i secoli, dalle avversità naturali. Basterebbe ricordare le sette o otto più devastanti degli ultimi 104 anni: 1882, 1885, 1888, 1911, 1927 e poi quelle degli anni cinquanta e sessanta e l’ultima, che sembra ieri, di Tresenda, per indicarla col nome tristemente facile da richiamare. Anche questa volta, come altre, ci sono anzitutto le vittime. I morti di Tartano e del Bormiese, residenti e ospiti estivi, si pongono tra noi e lo stesso disastro prima e sopra ogni altra specie di bilancio. Il coro doloroso del loro silenzio é più forte del rombo dei torrenti in piena. Così come la gioia e la sofferenza, la fatica e la festa danno la dimensione umana alla montagna e alla pianura, ai boschi e ai pascoli, al giorno e alla notte, alle nuvole dal sereno, la morte sembra strappare il tessuto dei rapporti umani con la natura e le sue forze.  La morte e la paura che fanno apparire improvvisamente, a chi si trovato nel mezzo della furia, nemico il mondo di ogni giorno e gettano nell'animo la voglia di fuggirne. Il disastro ci lascia, noi valtellinesi, diversi da prima. Ci ritroviamo con i trasporti sconvolti, il turismo colpito, aziende produttive travolte, allevamenti decimati e, quel che è peggio, un profondo senso di insicurezza e di inquietudine per l'avvenire. Come se ciò non bastasse a minacciare il nostro coraggio, dobbiamo goderci le lugubri cantilene dicerto estremismo ambientalista, che, se non stiamo attenti, ci spinge nella nebbia dove non si capisce più niente.  Da un lato nel suo tono millenarista da fine del mondo, accatasta tutto sul rogo, pensieri, parole, opere e omissioni del nostro passato mettendo in circolazione un Diavolo da far impallidire quello antico.  Dall'altra vanta l'implacabile certezza che i comportamenti della natura e del territorio non hanno più segreti. A sentirlo, tutto può essere catalogato, previsto, controllato. Non c'è piovasco, stratempo, alluvione non addomesticabile, non c'è palmo di suolo che possa sfuggire alla previdenza onnisciente. In questa visione da favola per bambini, Madre Natura si è arresa a discrezione deponendo anche l'ultimo dei suoi segreti nelle nostre mani. Tutto è facile se si sistemano i 1600 soggetti a frane, perché i nubifragi hanno ricevuto l'ordine di non uscire da quelle carte geologiche e di preavvisare il luogo,l 'ora e la modalità delle loro sortite violente. Nè può succedere che, mentre si mette sotto osservazione la frana di Spriana, piogge torrenziali e circostanze atmosferiche imprevedibili si sfoghino, ad esempio, su Tartano, dove le costruzioni sono andate a rilento, dove la Gran Baita è stata costruita al posto di una vecchia casupola con stalla, su un'area mai interessata da smottamenti, per un turismo modesto, familiare, a misura dell’ambiente. Nella località, in particolare, da cui la frana è partita, flagellata da decine e decine d'anni di intemperie, non si ricordano eventi idrogeologici eccezionalmente anormali. L'illuminismo delirante, incattivito spesso da pregiudizi ideologici o da spregiudicatezza politica, non solo suggerisce un'immagine deformata di una natura tenuta per intero, oggi come oggi, al guinzaglio dell’uomo, ma può essere causa di grandi errori nel valutare i rapporti tra la natura e la scienza, fra la natura e l'attività umana. Il primo proposito, quindi, da manifestare davanti alla nostra Valtellina devastata è il seguente: non farsi stordire dal fanatismo di molti sermoni ambientalistici di questi giorni per quanto rivestiti di spettacolarità televisiva. Il secondo viene subito dopo.  Evitare cioè l'errore opposto di piegarci sull'avvenimento e sulla sfiducia che si possa contrastare, attenuare, prevenire negli effetti più dannosi i cataclismi naturali. L'errore di disperare insomma, che ci impedisca di batterci, perché l'ambiente ci permetta di viverci,perché la lotta delle generazioni per imbrigliare fiumi e torrenti, per sostenere i pendii e impedire il dissesto della montagna possa comporsi con lo sviluppo dei settori produttivi adatti, con la viabilità diffusa, con un turismo moderno. È diritto e dovere dei Valtellinesi di respingere, come hanno fatto il Presidente della Provincia e il sindaco di Morbegno, accuse di complicità con il maltempo: i boschi non sono mai stati così densi e rigogliosi, i comuni hanno applicato e applicano le leggi urbanistiche. Fra le popolazioni sensibili ai beni ambientali e parsimoniose nel servirsene, quelle della Valtellina e Valchiavenna, se non si vuole essere ingiusti, vanno considerate tra le prime in Italia. Ci rendiamo, tuttavia, lucidamente conto quanto sia fragile e sempre in discussione, come un velo sottile facile a strapparsi, l'equilibrio tra l'avanzare delle forme produttive nuove, dopo il crollo della secolare base contadina, e le risposte del territorio. Sappiamo che si tratta di un problema permanente. Un terzo proposito, che non potremmo però mettere in pratica da soli, esigendo esso l'apporto scientifico, tecnico e politico dei livelli superiori, riguarda "la lettura” delle rovine in mezzo alle quali dobbiamo riprendere a lavorare. Lo straripamento dell’Adda, lo scatenarsi dei torrenti, i franamenti del terreno qualche cosa possono spiegarci,con il loro tragico linguaggio, che valga a orientare la nostra condotta verso di loro e verso il territorio. Da una calamità all'altra nulla si ripete nelle stesse circostanze, ma qualche dato costante i mezzi attuali d'indagine potranno certo individuarlo. Abbiamo bisogno che questa lettura non ci informi solo sul modo di “conservare" il territorio, di disciplinare le acque, di costruire arginature a prova di cataclisma, ma anche di valorizzare le risorse perché sia possibile starci in montagna, nel senso di ricavarci, con lo spirito di iniziativa e il lavoro,il necessario per viverci e migliorare.

 

Giulio Spini dal Corriere della Valtellina del 25 luglio 1987