Com'era verde la mia Valle...

VORREI qui raccontare perché la Valtellina mi sta nel cuore, perché la penso come la più bella e commovente delle valli italiane, perché la sua tragedia ferisce qualcosa che sta fra le cose buone della mia vita. Per me la prima grande suggestione della Valtellina è di essere isolata dall' Italia, geograficamente fuori dall' Italia padana, separata da quel freddo cuore alpino che è il lago di Como, dalla fredda, nevrotica gente lacustre. Eppure di essere la più italiana delle valli e italiana in modo virtuoso e ingenuo, modesto e dignitoso. Italiana risorgimentale, porta d' Italia, faccia alla minaccia austriaca, trincee dello Stelvio, dell' Ortles, del Cevedale. Italiana prima rivoluzione industriale, cotonifici e opere idroelettriche i suoi campioni di sci, i Confortola, i Compagnoni, i Sertorelli correvano per l' Azienda elettrica municipale di Milano, la stessa che ora manovra le sue riserve per far tracimare il lago di val Pola; i suoi ingegneri si laureavano a Pavia per tornar lì a costruire dighe e condotte. L' Italia della scuola dell' obbligo, delle cooperative, povera ma alfabeta, conosciuta dal Togliatti giovane nel Convitto liceo un po' himalaiano di Sondrio. LA SECONDA forte suggestione che provo per la Valtellina viene dalla sua omogeneità e intrasferibilità. E' unica e non è imitabile. C' è un timbro, un sapore, un odore valtellinese che passa per il vino, per le paste di grano saraceno, per i formaggi di casera di cui, man mano, riconoscete l' assonanza, la congenialità con tutto il resto, uomini e vigneti, villaggi e pascoli: una punta, un sentore di asprigno su un fondo di gradevolezza contenuta. Con tutte le potenze dei grandi vini, dei grandi formaggi e dei grandi uomini, ma controllate, tenute sul medio e immutevole. Il massimo di questa Valtellina composta di uomini e di sapori, di paesaggi e di timbri era per me una vecchia osteria di Ponte, vicina alla provinciale (oggi, immagino, sgomberata) dove avevo ritrovato, venti anni dopo, un compagno di gare di sci, sempre lo stesso, ma adesso oste e cacciatore. Toh, chi si vede era stato tutto il suo ritrovarci. Adesso mi serviva e consigliava con una voce sussurrata, come un fruscio di ruscello, colla zeta valtellinese a volte al posto della esse questo zugo di camoscio lo facciamo noi. Se vuoi ho del Grumello che prendo da un amico. Si mangiava sotto il pergolato, nei caldi, mai caldissimi meriggi estivi, nella sicurezza anche essa unica della valle trasversale, la sola grande valle parallela alla pianura padana, non precipite, non presa dalla voglia, dal bisogno di correre giù alla piana e proprio quella sicurezza delle buone memorie mi rende più dolorose e quasi incredibili le immagini attuali della rovina fangosa e ghiaiosa, delle fiumare giallastre e delle case squarciate. Il fascino unico e omogeneo della Valtellina, da Colico a Bormio e magari a Tre Palle, il comune più alto di Italia prima che facessero quello un po' finto del Sestriere, era proprio, sarà ancora, quella dolcezza un po' amara come le erbe del Braulio, quella serenità naturale. Non ho mai visto in altre valli azzurro di cielo, bianco di nevi, verde di boschi così amichevoli e protettivi; non rarefatti, abbacinanti, incombenti, drammatici o dionisiaci come in Valle d' Aosta, né calligrafici e geometrici come nella disciplinata follia altoatesina. Ma amici, riposanti, fraterni. Dalla finestra della nostra stanza da letto a Ponte, svegliati dallo sferragliar dei tratur che passavano con i carichi di uve o di fieno, vedevamo nel mattino limpido i nevai del Coca, montagna amica, non al confine dell' ignoto o dell' orrido, ma dell' amica Bergamasca. Entrava nella stanza quell' aria valtellinese, pura ma senza eccitazioni, fresca ma senza brividi. Si udiva la voce buona della Maria che preparava gli gnocchetti, come per anni nell' emigrazione stagionale in alberghi dell' Engadina; mi veniva in mente, spontaneo e gradevole, il pensiero dell' infernotto del macellaio che vi faceva ammorbidire, senza fiato cadaverico di frigorifero, arrosti sublimi. Per me poi la Valtellina era un po' la stupefacente pietra di paragone con le valli alpine della mia adolescenza, le povere e allora fuori dal mondo valli del Cuneese. In particolare per due diversità: la vita verticale della Valtellina e la ricchezza della sua storia, della sua civiltà. Anche i ladri d' auto erano verticalisti in Valtellina: un mattino non trovai in strada la mia Alfetta ma quattro ore dopo una camionetta dei carabinieri già mi portava al recupero di ciò che restava, mille metri più in alto di Ponte, ma mille metri proprio a perpendicolo: senza ruote, posata su quattro pilastrini di sassi, strano monumento druidico motoristico. Tutto va su verticale nella Valtellina dei due pendii quasi lisci fino alle Prese: prima le vigne a ritto chino, a filari verticali, più in su i boschi dei funghi e ancora più in su i pascoli, con borghi sempre più radi fino alle casere sparse. E lo stupore della ricchezza storica e urbanistica, incredibile per uno come me cresciuto in valli dove le canoniche erano l' edificio e la cornucopia massimi, qualche audacia di arco o di colonna, i solai per il miele o per la frutta, una madia con la decorazione a rosa del Delfinato, una statua lignea di Probo o di Costanzo, santi dal pelo rossiccio della legione tebea, tutto ciò che potevano aver raccolto le misere autorità e continuità parrocchiali. In Valtellina invece la scoperta delle chiese sontuose della Controriforma e dei palazzi nobiliari, con saloni da ballo in cui si poteva giocare a calcetto nei giorni di pioggia; o le stalle ricavate in dimore patrizie decadute, con le mucche ruminanti sotto le volte e gli affreschi sbiaditi; o la scoperta della Teglio rinascimentale di palazzo Besta che a me sembrava quasi la scoperta di un' Angkor alpina. E mi stupiva il compendio di tutti questi genius loci valtellinesi, che è il valtellinese uomo e la sua frequentazione così più agevole degli incontri-scontri con il furor gallico valdostano o con la esemplare paranoia sudtirolese. Ma chi sa, forse ero prevenuto, in senso buono, dal primo valtellinese che conobbi, l' Achille Compagnoni, quello del K2 che allora, sul finire degli anni Trenta, faceva il milite confinario in valle Stura. Ci vedevamo quasi ogni domenica d' inverno, per le gare di fondo. Lui mi sorrideva e mi diceva timido: Questa volta me le dai. Sei forte tu. Poi gentilmente mi staccava di dieci minuti.

Giorgio Bocca, La Repubblica 2 settembre 1987